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"Sotto la pelle - libri antispecisti" - Ep 3 "La vegetariana" di Han Kang
"La vegetariana" è un romanzo in definitiva che ritrae lo scontro radicale tra gli ideali vegani e l'egemonia patriarcale e specista in Corea del Sud, così come in quasi tutte le società e nel farlo denuncia in maniera molto chiara l’intersezione tra tutti i tipi di violenza e in particolare tra la violenza sugli animali e quella nei confronti delle donne.
Minima Shop
November 30, 2022

"Sotto la pelle - libri antispecisti" è un podcast di Minima Shop in cui io, Viviana, condivido le mie riflessioni sul rapporto tra animali umani e animali non umani attraverso l’analisi di alcuni romanzi che sono interessati a indagare i confini tra specie e tutte le conseguenze che questi confini continuano ad avere nel modo in cui ci definiamo umani e in cui consideriamo gli animali. Trovi il trailer su spotify e su Spreaker.
Puoi ascoltare gratis questa terza puntata su Spotify e su Spreaker.
Qui sotto trovi la trascrizione.
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INCIPIT
"Prima che mia moglie diventasse vegetariana, l’avevo sempre considerata del tutto insignificante. Per essere franco, la prima volta che la vidi non mi piacque nemmeno. Né alta né bassa, capelli a caschetto né lunghi né corti, colorito itterico e malaticcio, zigomi un po’ sporgenti: quella sua aria timida e giallognola mi disse tutto quello che mi occorreva sapere di lei. Mentre si avvicinava al tavolo dove la aspettavo, non potei fare a meno di notare le sue scarpe: un paio di scarpe nere, le più banali che si possano immaginare. E quel suo modo di camminare, né veloce né lento, a passi né grandi né piccoli."
SPOILER ALERT E TRIGGER WARNING
Quello che hai appena sentito è l’incipit di “La vegetariana” di Han Kang, il romanzo di cui ho scelto di parlarti in questa terza puntata di “sotto la pelle”. Innanzitutto voglio avvisarti che in questo podcast analizzerò nel dettaglio il romanzo, se non hai ancora letto il libro e sai che gli spoiler potrebbero rovinarti il gusto della lettura, ti consiglio di passare di qui più tardi.
Inoltre vorrei dirti che sono presenti riferimenti a violenza di tipo psicologica, sessuale, domestica e contro gli animali. Parlerò anche di autolesionismo, suicidio, disturbi alimentari e nello specifico di anoressia nervosa. Se sei particolarmente sensibile, forse dovresti valutare di non ascoltare questa puntata.
LE TRE NOVELLE
“La vegetariana” è stato originariamente pubblicato in Corea del Sud come tre novelle separate, scritte da Kang durante gli anni 2003- 2007 e pubblicate in magazine letterari. Dopo una prima fredda accoglienza, è diventato un bestseller di culto, con diritti di traduzione venduti in venti paesi e la novella centrale "La macchia mongolica" insignita del prestigioso Premio letterario Yi Sang nel 2005. La pubblicazione in Corea delle tre novelle unite, come unico romanzo sotto il titolo “La vegetariana” è del 2007, mentre in Europa abbiamo dovuto aspettare quasi 10 anni per poterlo leggere, grazie alla traduzione inglese di Deborah Smith arrivata solo nel 2016, che è valso a traduttrice e scrittrice il Man Booker International Prize e sempre nello stesso anno la pubblicazione della traduzione italiana di Milena Zemira Ciccimarra per Adelphi.
Nelle interviste, ai giornalisti che le chiedono quali siano stati i suoi riferimenti letterari e le sue fonti di ispirazione per la scrittura di “la vegetariana”, Kang parla di un racconto scritto da lei nel 1997 e intitolato “il frutto della mia donna”, la storia kafkiana di una donna che si trasforma letteralmente in una pianta, dalla cui rielaborazione e riscrittura nascerà il romanzo; ma cita anche alcuni versi del poeta sudcoreano degli anni ‘20, Yi Sang che dice "Voglio credere che gli esseri umani dovrebbero essere piante", che Kang legge durante gli anni universitari rimanendone colpita.
VEGANISMO E DISTURBI ALIMENTARI
“La vegetariana” è un materiale difficile da maneggiare per un pubblico distante dalle istanze vegan e antispeciste: è molto alto il rischio di interpretarlo alla luce di quella retorica nociva, purtroppo molto diffusa nei discorsi intorno al veganismo, che vuole ridurre la scelta vegan ai concetti di privazione e restrizione della dieta, riducendo quindi un movimento politico dall’enorme potenziale trasformativo, a una mera questione alimentare, anzi a una questione di disordine alimentare.
Il rischio è quello di non riconoscere nel romanzo la profonda riflessione antispecista e vegan seppur così presente ma di fermarsi a un’interpretazione più “clinica” della vicenda che quindi non sarebbe altro che la storia di una malattia, o meglio la storia della parabola discendente di una donna vittima di violenza che sviluppa un disagio mentale e cerca di suicidarsi o ancora la storia di una donna alla ricerca della trascendenza assoluta che, sulla scia dello stereotipo della donna mistica e contemplativa tanto caro alla cultura religiosa occidentale, decide di digiunare per elevarsi dalla sua condizione mortale e avvicinarsi ad uno stato di purezza più simile al divino.
Ne “la vegetariana” però, ed è quello che cercherò di sostenere in questa analisi anche a grazie al contribuito di svariati studi gender studies e vegan studies,, il disordine alimentare, l’anoressia nervosa nello specifico, c’è senza ombra di dubbio, ma lungi dall’essere la conseguenza di un rapporto patologico con il cibo, all’interno del quale il veganismo funge da pretesto, è al contrario la diretta conseguenza di una società in cui la scelta etica e politica di una donna di non cibarsi di animali, la bolla immediatamente come malata e pericolosa. L’anoressia nervosa ne “la vegetariana” non è diretta conseguenza di una scelta vegan ma di un contesto sociale e familiare che reprime, giudica e isola quella donna che decide di essere vegan e che quindi mette in discussione i valori che sostengono la società in cui vive.
Se il veganismo della protagonista la porta a una patologia è perché il veganismo come scelta etica e politica è per forza di cose patologico in una società carnista: non è la donna ad essere malata ma la società carnista ad esserlo, una società che non può comprendere e accettare le istanze vegane, a maggior ragione se agite da una donna.
E’ un romanzo in definitiva che ritrae lo scontro radicale tra gli ideali vegani e l'egemonia patriarcale e specista in Corea del Sud, così come in quasi tutte le società e nel farlo denuncia in maniera molto chiara l’intersezione tra tutti i tipi di violenza e in particolare tra la violenza sugli animali e quella nei confronti delle donne.
Come cercherò di sostenere nell’ultima parte di questa analisi, la vegetariana è anche un’opera che immagina e apre la possibilità all’esistenza di un modo di vivere in un mondo violento che non implichi necessariamente né il ripudio totale della propria umanità né l’indifferente rassegnazione allo status quo.
I TRE PUNTI DI VISTA ESTERNI
La vegetariana del titolo è Yeong-Hye, una donna sud coreana che in seguito a un sogno decide di smettere di mangiare animali e derivati, quindi per essere precisi, decide di diventare non vegetariana ma vegana. Come dicevo nell’introduzione, il romanzo nasce come tre novelle separate e questa divisione la ritroviamo nei 3 capitoli che lo compongono, ognuno dei quali corrisponde a un punto di vista diverso; il primo capitolo si intitola “La vegetariana” ed è narrato in prima persona dal marito di Yeong-Hye, Mr Cheong; il secondo “la macchia Mongolica” è invece narrato in terza persona e si focalizza sul punto di vista del cognato di Yeong-Hye, il marito della sorella, di cui non viene mai fatto il nome; il terzo capitolo “fiamme verdi” è sempre narrato in terza persona ma dal punto di vista della sorella di Yeong-Hye, In -Hye.
Primo aspetto interessante del romanzo è dunque la scelta stilistica di escludere dalla narrazione il punto di vista della vegetariana Yeong-Hye, che in effetti è assente, se non attraverso alcune parti di discorso indiretto, in corsivo nel testo, che riportano i suoi sogni e le sue visioni.
La scelta di lasciare la protagonista senza voce riflette la sua condizione all’interno della sua famiglia e all’interno della società coreana nella quale vive: è una donna silenziata, oggettificata, che non ha diritto di parola e dalla quale ci si aspetta passività non autodeterminazione. Lei non parla, di lei si parla e su di lei si fanno ragionamenti, discorsi, fantasie.
La conseguenza più forte di questo tipo di narrazione è quella di far risaltare benissimo agli occhi dei lettori, attraverso appunto i 3 punti di vista esterni, tutti i pregiudizi che accompagnano il veganismo nelle società speciste e patriarcali.
"LA VEGETARIANA": IL PUNTO DI VISTA DEL MARITO
L’incipit del romanzo e quindi del primo capitolo,“la vegetariana”, si apre con la descrizione di Yeong-Hye da parte del marito Mr Cheong, una descrizione poco lusinghiera ma comprensibile nel contesto coreano nel quale ci troviamo.
Infatti il primo aggettivo che Mr Cheong dedica alla moglie è “insignificante”: altezza media, capelli né lunghi né corti, camminata né veloce né lenta, scarpe banali.
“Tuttavia pur non avendo attrattive speciali, non presentava nemmeno particolari difetti, e quindi non ci fu ragione di non sposarci. La personalità passiva di quella donna di cui non intravedevo né freschezza né fascino e nemmeno una singolare raffinatezza, faceva perfettamente al caso mio”
“Proprio come mi ero aspettato, si rivelò una moglie come tante altre, che affrontava le cose senza spiacevoli grilli per la testa. Ogni mattina si alzava alle sei per preparare del riso, una zuppa, e di solito un po’ di pesce. Sin dall’adolescenza aveva contribuito alle entrate della sua famiglia con lavoretti part-time. Alla fine le avevano dato un posto di assistente nella scuola di computer grafica che aveva frequentato per un anno, e un editore di manhwa (fumetti) le aveva affidato il lavoro di lettering, che poteva fare a casa. Era una donna di poche parole. Raramente pretendeva qualcosa da me e per quanto tardi arrivassi a casa, non si sognava mai di piantar grane. Anche quando avevamo tutti e due una giornata libera, non le passava mai per la testa di propormi di fare qualcosa insieme. Mentre io trascorrevo il pomeriggio oziando con il telecomando in mano, lei si chiudeva nella sua stanza. Probabilmente passava il tempo a leggere, che era in pratica il suo unico svago.”
Siamo in Corea del Sud, una società di stampo tradizionalista e ancora fortemente patriarcale, dove una donna è definita principalmente dai suoi ruoli di cura nei confronti del prossimo: moglie sottomessa, figlia ubbidiente, sorella rispettosa. E Yeong-Hye è descritta proprio così: non ha grilli per la testa, ovvero si dedica completamente al marito, accogliendolo ogni sera a casa senza far domande in caso di ritardi, sfamandolo, alzandosi alle sei la mattina per fargli la colazione prima che lui esca di casa per lavorare; da giovane ha fatto lavoretti per aiutare economicamente la famiglia, ora è casalinga, non ha ambizioni lavorative, fa un altro “lavoretto” da remoto; non esprime la sua personalità all’interno del matrimonio né all’esterno, parla poco, non ha amicizie, frequentazioni, hobby, a eccetto della passione tutta domestica e solitaria della lettura. L’ubbidienza, la dedizione, la mansuetudine sono le qualità che Mr Cheong ha visto in sua moglie e per le quali l’ha sposata. Unico neo di Yeong-Hye è che da sempre non le piace portare il reggiseno e per il marito, se ciò ha costituito motivo di eccitazione da fidanzati, adesso è solo motivo di fastidio e imbarazzo.
È il marito a venire a conoscenza per primo della decisione di Yeong-Hye di smettere di mangiare carne: la prima volta, alle quattro del mattino, la sorprende immobile davanti al frigo aperto, quando le chiede cosa stia facendo, lei risponde solamente “Ho fatto un sogno”. Poche ore più tardi va in cucina e la trova circondata da sacchetti di plastica e contenitori: Yeong-Hye sta buttando gran parte del cibo che conservano in frigo, pancia di maiale, stinchi di bue, calamari, anguilla, dentro ai sacchi neri della spazzatura. La sera del giorno stesso lo aspettano in tavola lattuga, pasta di soia e zuppa di alghe: Yeong-Hye ha buttato non solo la carne, ma anche latte e uova, perché non le sopporta più, dice.
Mr Cheong per la prima volta è spiazzato, la risolutezza della moglie lo lascia senza parole, la scelta vegan lo lascia stranito. Nella visione delle cose di Mr Cheong, le ragioni per diventare vegetariani sono poche: per alleviare allergie, per l’ambiente, se si è monaci buddisti per il voto morale di non prendere parte alla distruzione della vita; in genere comunque per ragioni di salute come perdere peso, alleviare insonnia e cattiva digestione oppure perché si è posseduti da uno spirito maligno.
“In qualsiasi altro caso, se una moglie andava contro la volontà del marito, come aveva fatto la mia, era solo per pura testardaggine”.
E il romanzo ci suggerisce che questa opinione sia condivisa dalla società coreana tutta. A questo proposito la cena di lavoro è esemplificativa: mr Cheong viene invitato per la prima volta a cena dal suo capo insieme al direttore generale, quello esecutivo e le rispettive mogli, è un’occasione importante e tutto deve andare bene. Già prima di uscire di casa però nota che Yeong-Hye, sua accompagnatrice, non si è truccata e rimproverandola la invita a farlo, una volta arrivati al ristorante e accomodati al tavolo, si accorge che la moglie indossa una camicetta nera aderente dalla quale si intravedono i capezzoli, ancora una volta non ha indossato il reggiseno mettendolo in grande imbarazzo.
Ma il bello deve ancora venire. Fin dalle prime portate di un menu che si rivelerà totalmente a base di prodotti animali, Yeong-Hye rifiuta i piatti al camerieri dicendo di non mangiare carne e provocando ulteriore disagio nel marito nonché la reazione dei commensali che si lanciano nel classico repertorio contro il veganismo fatto di obiezioni che vanno dal “deve essere impossibile mangiare senza carne” passano per “mangiare carne è un istinto basilare dell’uomo, non mangiarla è contro natura” fino a “le persone che eliminano arbitrariamente questo o quell’alimento sono intransigenti”. Mr Cheong interviene per salvare la situazione e offre una spiegazione al veganismo della moglie, cioè gravi problemi di salute, gastroenterite acuta e insonnia. Solo allora la tavolata tira un sospiro di sollievo e si mostra comprensiva
“be’ devo dire che sono contento di non essere mai stato al tavolo con un vero vegetariano. Non sopporterei di condividere un pasto con qualcuno che pensa che mangiare carne sia una cosa disgustosa, solo perché lo fa sentire personalmente così. Non siete d’accordo?”
CARNISMO E SESSISMO IN COREA DEL SUD
Capiamo quindi che la scelta vegan di Yeong-Hye avviene in un contesto profondamente carnista, in una cultura in cui mangiare carne non solo è la norma, ma non è neanche qualcosa di messo minimamente in discussione.
Seppur lo sguardo occidentale tenda a romanticizzare l’oriente e a vederlo come un luogo di misticismo e purezza ritenendo quindi che le abitudini alimentari siano decisamente spostate verso il consumo di alghe tofu e verdure o comunque di piatti vegetariani, la realtà è che è molto raro trovare nelle culture orientali piatti vegetali, o meglio la dieta vegetale è qualcosa di strettamente legata alla cultura buddhista e tollerata quindi solo per motivi religiosi o di salute. La stragrande maggioranza dei piatti sud coreani sono a base di carne o di brodo di carne e altri derivati animali. Il fatto che nel titolo e all’interno del romanzo si usi il termine “vegetariana” e non “vegana” ad esempio è già esemplificativo del fatto che la cultura sud coreana sia a tal punto carnista ed estranea alle istanze vegane da non avere nemmeno un lessico specifico per parlare di questi temi.
Sicuramente dagli anni 2000 le cose stanno cambiando anche in Corea del Sud e il vegetarianismo e veganismo stanno lentamente iniziando a essere riconosciuti ma quando si legge la vegetariana si deve assolutamente tenere in considerazione che la Corea post coloniale è un paese che parallelamente alla rapidissima crescita economica ha visto prevalere, come spesso avviene, una dieta a base di carne.
Così come leggendo la vegetariana si deve tener conto che la vicenda di Yeong-Hye avviene in una società che è ancora profondamente conservatrice, che ancora oggi ha uno dei più ampi divari salariali di genere, dove sono diffuse molestie, in particolar modo quella di filmare con telecamere nascoste le donne nei bagni pubblici, che ha depenalizzato l’aborto solo nel 2019 in seguito ai neonati movimenti femministi sorti anche sull’onda del #Metoo.
Yeong-Hye insomma è una donna sud coreana che con la sua scelta vegan sta mettendo in discussione un’intera società e i valori su cui si basa, sta facendo tremare non solo le basi del carnismo ma anche quelle del patriarcato.
Tanto che sempre nel primo capitolo, attraverso il punto di vista del marito, veniamo a conoscenza del fatto che di pari passo con la decisione di non mangiare più carne e derivati, Yeong-Hye sembra evitare di proposito il sesso con il marito, quando in passato aveva sempre assecondato i suoi desideri come ci si aspetta da una brava moglie. E questo suo diniego, insieme a non mangiare carne, a non portare il reggiseno, si pone totalmente al di fuori di ciò che è ritenuto socialmente accettabile per il suo genere.
Mr Cheong non può tollerare l’ennesimo rifiuto sessuale della moglie e per tutta risposta la stupra. E lo fa ripetutamente, per sua stessa ammissione con sempre più facilità. Non può accettare che il suo potere sia messo a rischio dalla moglie, un potere che agisce attraverso il controllo sul corpo della moglie, in ogni suo aspetto, dall’alimentazione, al vestiario, al trucco, al sesso e che sente sfuggirgli di mano. Lo stupro è un modo per rimettere Yeong-Hye al suo posto.
La scelta vegan nella sua portata rivoluzionaria, di rottura, fa emergere quindi in tutta la sua brutalità, la violenza misogina che scorre nelle vene della società sud coreana e che non è solo violenza del marito sulla moglie ma anche quella del padre sulla figlia.
Il padre di Yeong-Hye è protagonista di una delle scene sicuramente più drammatiche del romanzo, che per il resto invece mantiene un tono sempre controllato, impassibile, quasi distaccato, e che segna anche una svolta narrativa. La famiglia di Yeong-Hye infatti, padre, madre, sorella e cognato, decide di organizzare una riunione familiare per dissuadere Yeong-Hye dal suo veganismo, in apparenza perché preoccupati dalle sue condizioni di salute, infatti Yeong-Hye già magra di suo, da quando non mangia carne sta dimagrendo, dorme poco, e ha comportamenti a loro dire strani come ad esempio la tendenza a stare nuda in casa.
Da subito i toni della conversazione sono accesi, in particolare l’atteggiamento del padre, che sappiamo essere un ex militare che ha partecipato alla guerra e ha ucciso 6 viet cong, e che sappiamo aver inflitto violenze fisiche alle sue due figlie fin da piccole, in particolar modo a Yeong-Hye, si rivela subito violento, da padre padrone a cui la figlia femmina deve obbedienza cieca. In seguito ai numerosi dinieghi di Yeong-Hye di mangiare i piatti di carne preparati dalla sorella in occasione della riunione familiare, il padre, in un'escalation di violenza fisica e verbale, schiaffeggia ripetutamente la figlia, la immobilizza con la complicità degli altri e tenta forzatamente di introdurle in bocca un pezzo di maiale, premendo con forza la carne contro le sue labbra serrate. Per il padre, il rifiuto della figlia di mangiare carne è una minaccia diretta alla sua mascolinità e al suo predominio, la carne è legata ancestralmente alla virilità e ciò risale alle forme più primitive e gerarchiche di società quando l’uomo cacciava, dalla carne ricavava il suo status quo e quindi il suo potere. Quando Yeong-Hye riesce a liberarsi dalla presa, sputa il pezzo di maiale che ha in bocca e in stato di profonda angoscia e rabbia, brandisce un coltello e si taglia un polso.
LA PATOLOGIZZAZIONE DEL VEGANISMO
Da questo momento in poi, il veganismo di Yeong-Hye viene patologizzato, è da qui che inizia la sua spirale discendente, la sua malattia: verrà ospedalizzata, lasciata dal marito, inizierà a rifiutarsi di mangiare del tutto e riceverà una diagnosi di anoressia nervosa.
Il gesto di autolesionismo non è di certo causato dal non mangiare carne, una scelta di per sé positiva, che nel caso di Yeong-Hye è frutto di una trasformazione, di una presa di coscienza, diversamente è l’esito delle violenze psicologiche e fisiche, dei tentativi di sabotaggio e inganno, della marginalizzazione e delegittimazione che ha subito da parte delle persone che la circondano, dai colleghi di lavoro fino alle persone che in teoria dovrebbero essere più comprensive e solidali con lei, come il marito, la sorella e i genitori ma che invece non possono accettare il suo veganismo come libera scelta ma solo come patologia. Sono i suoi familiari a sabotarla, sono loro a causare il suo malessere, se non addirittura sono l’origine dei suoi traumi più profondi, sono alla base di quei sogni che non smettono di perseguitarla.
I SOGNI DI YEONG-HYE
I sogni di Yeong-Hye, riportati nel romanzo come discorso indiretto, unici momenti in cui lei ha voce, come tutti i sogni sono allusivi, sono immagini sfocate e giustapposte, sensazioni di pericolo di angoscia e di morte, minacce fatte di sangue e carne dalle quali lei vorrebbe scappare, sono sogni che parlano di un volto e di uno sguardo al quale vorrebbe sottrarsi “gli occhi di un animale che brillano selvaggi”. Quello che realizza Yeong-Hye attraverso i sogni e che la porta alla svolta vegan, non è mai esplicitato ma noi capiamo che ha a che fare con la nuova consapevolezza di come tutte le violenze siano connesse, e lo capiamo soprattutto da uno dei suoi flashback, una visione molto vivida che ha per protagonista il padre. Si tratta di un episodio che risale a quando Yeong-Hye aveva nove anni e dovette assistere alla tortura rituale e alla macellazione, per mano di suo padre, del cane villaggio, a cui tutti, compresa lei, erano in qualche modo affezionati, e che aveva però avuto l’imperdonabile colpa di morderle il polpaccio.
Oltre a vedere il padre torturare un animale fino ad allora beniamino del quartiere, Yeong-Hye deve anche cibarsene, è quindi lei stessa torturata:
“quella sera a casa nostra ci fu un banchetto. vennero gli uomini che vivevano nei vicoli del mercato, tutti quelli che secondo mio padre valeva la pena conoscere. secondo il proverbio, affinché una ferita causata dal morso di un cane guarisca devi mangiare la carne di quel cane, e io ne presi un boccone. No, in verità ne mangiai un’intera scodella assieme al riso. L’odore di carne bruciata, che i semi di perilla non mascheravano del tutto, mi pizzicava il naso. Ricordo i due occhi che mi avevano guardato mentre il cane continuava a correre, mentre vomitava sangue mescolato a bava, e che dopo mi era sembrato affiorassero fugacemente sulla superficie della zuppa.”
Capiamo allora che il rifiuto di mangiare carne di Yeong-Hye è il rifiuto della violenza in ogni sua forma, una violenza che ha la stessa matrice e che nella sua ferocia colpisce allo stesso modo animali e donne, che la colpiva da bambina e continua a colpirla adesso che è un’adulta.
Successivamente al suo atto autolesionista, mentre è in ospedale con una flebo nel braccio, disprezzata da un marito che sta meditando di abbandonare quella donna strana e spaventosa che è sua moglie, e ancora una volta umiliata dalla madre che con l’inganno cerca di farle mangiare un intruglio miracoloso a base di capra, Yeong-Hye ha un’altra visione, ancora più simbolica:
“Qualcosa si è bloccato all’altezza del plesso solare. Non so che cosa può essere. adesso è perennemente conficcato lì. Lo sento sempre, anche se ho smesso di portare il reggiseno. E per quanto faccia respiri profondi, non vuole andarsene. Un grumo formato da urla e gemiti aggrovigliati, intrecciati tra loro uno strato dopo l’altro. E’ per la carne. Ho mangiato troppa carne. Le vite degli animali che ho divorato si sono tutte piantate lì. Il sangue e la carne, tutti quei corpi macellati sono sparpagliati in ogni angolo del mio organismo e anche se i resti fisici sono stati espulsi, quelle vite sono ancora cocciutamente abbarbicate alle mie viscere”
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